Questo articolo è stato scritto per il quindicinale Zero in Condotta nel dicembre del 2002.
"Da sempre uno degli argomenti costantemente presenti nelle discussioni tra appassionati di musica è la qualità dei giornali che di musica scrivono: chi di voi non si è mai lamentato per la scelta di dischi recensiti, il modo in cui gli artisti vengono intervistati, il dubbio approfondimento di reportage e speciali assortiti, e chi più ne ha più ne metta.
Perché poi chi di musica è effettivamente appassionato non riesce a sottrarsi alla lettura mensile, quando non settimanale, di periodici specializzati chiedendo consigli e azzardando confronti con opinioni altrui.
Scrivere di lavoro atipico nel campo del giornalismo musicale è anche una ghiotta occasione di fare una volta per tutte il punto su quello che realmente è questa professione nel nostro Paese.
Professione che in realtà semplicemente NON esiste.
Per poter definire un lavoro tale non si può difatti prescindere dal considerare sua logica contropartita la corresponsione di uno stipendio che consenta perlomeno di vivere, cosa che dalle nostre parti, nel settore della musica stampata non avviene a nessun livello.
Teniamo fuori dalla conta quel manipolo di cariatidi incartapecorite che da decenni narcotizzano i lettori dei quotidiani nazionali e che comunque non arrivano a contarsi sulle dita di due mani, tutti gli altri che hanno deciso di occuparsi di musica sulla carta stampata sono costretti a praticare tale professione come semplice hobby affiancandolo a lavori che spesso e volentieri nulla hanno a che fare con il mondo delle sette note ma che in compenso consentono di infilare in dispensa la classica pagnotta alla fine di ogni mese.
Il motivo?
Semplice: in Italia a nessuno o quasi frega nulla della musica.
Niente mercato, niente prodotto.
Basta scorrere le classifiche di vendita dei dischi per cogliere il corto circuito tra musica e stampa. Il pubblico di Celentano, Ramazzotti, Rossi secondo voi è più interessato a conoscere dettagli artistici sui propri beniamini o preferisce la lettura di settimanali che li tengano informati sulle vicende scoperecce degli stessi?
Tutti gli altri non comprano dischi o lo fanno in misura molto marginale, figuriamoci se possono avere voglia di acquistare giornali.
A questo aggiungiamo una densità di progetti che affollano le edicole decisamente spropositata e spesso motivata da esigenze fiscali di editori intenti in parallelo ad altre e ben più redditizie iniziative ed un turn over di presunti giornalisti tale da rendere pressoché impossibile il costruire una qualsivoglia base di professionalità.
A suffragare queste parole il resoconto di una chiacchierata con Luca Frazzi, personaggio di primo piano del giornalismo musicale indipendente italiano, impegnato con passione ed entusiasmo da oltre vent’anni sulle pagine di mille riviste.
Le sue parole non lasciano spazio a fantasie ed equivoci.
Quando e come hai cominciato ad occuparti di musica?
Ho 37 anni, ed ho cominciato ad occuparmi di musica quando ne avevo 13 influenzato dalla colonna sonora di casa mia (ho un fratello maggiore che ha rovinato la mia infanzia con Genesis, Van Der Graaf, Pink Floyd...).
Da lì é nata prima una forte attrazione verso quelle cose poi una forte repulsione, che si é tradotta in un amore esagerato per il punk e la new wave.
Il mio primo articoletto é uscito sul giornalino scolastico 'Il Malvagio', nella primavera dell'80.
Da allora non ho mai smesso di riempire fogli.
Su quali testate hai scritto ed oggi dove scrivi?
L'elenco é infinito.
Nel 1981 ho iniziato con la fanzine punk 'Nuova Farhenheit', poi la new wave di 'Komakino' , nel gennaio dell'85 é apparsa la mia prima recensione su una rivista a diffusione nazionale, il 'Buscadero', dal settembre dell'85 all'inizio del '92 ho scritto per 'Rockerilla', poi ho seguito Claudio Sorge nella fondazione di 'Rumore', per la quale scrivo tutt'ora.
In mezzo però ci sono state mille altre cose. Ho scritto per 'Urlo', per 'Lost Trails', per 'Abbestia', ho realizzato io stesso delle fanzines come 'Cosmo's Factory' nell'86, 'Do The Pop' dall'88 al '90 ed 'Inflammable Material' dal '92 al '95.
E sono stato direttore di una rivista, 'Bassa Fedeltà', 13 numeri usciti in edicola tra il '97 ed il '99. Oggi realizzo insieme a Claudio Sorge anche 'Metallic KO', rivista-cult per ultra-appassionati. E chissà di quante altre riviste e fanzines mi sono dimenticato...
Hai mai pensato di poter ricavare da vivere con il giornalismo musicale?
All'inizio.
Poi mi sono rassegnato...
Quanto tempo della tua settimana dedichi alla musica e quanto tempo a scrivere di musica?
Non riesco a quantificarlo.
Tanto, in ogni caso.
Quello che posso, lavoro e scazzi vari permettendo.
Ma quantificarlo é impossibile.
Quali sono state la più grande soddisfazione e la più grande delusione incontrate in questi anni come giornalista musicale?
La più grande soddisfazione?
Incontrare Joey Ramone per una lunga intervista negli spogliatoi del Palasport di Modena, parecchi anni fa.
Sedevo di fianco ad uno dei miei miti assoluti da adolescente (forse IL mito), discutevo amabilmente con lui dividendo frutta e burro d'arachidi.
Il massimo.
La più grande delusione?
Constatare che il settarismo ed il protagonismo di certi personaggi non hanno mai consentito alla scena rock alternativa italiana di crescere.
L'ho sempre detto: eravamo in quattro gatti e siamo rimasti in quattro, anche vent'anni dopo. C'é stato un pò di ricambio, ma nulla più.
E questo perché il fanatico del mod ha sempre guardato storto il punk-rocker DOC, che a sua volte storceva il naso al cospetto del fan degli Hellacopters, il quale non cagava nemmeno di striscio il collezionista di garage, che si vantava di essere l'unico a possedere il rarissimo primo singolo degli Unclaimed.
Ritieni che per come è strutturato il mercato editoriale in italia ci sia spazio per un giornalismo musicale professionistico?
Ma scherziamo?
Assolutamente no.
Non credete a chi sventola cifre da capogiro.
Palle: le riviste rock italiane non vendono, punto e basta.
Hanno sempre venduto poco, oggi ancora meno.
Giornalismo musicale come hobby: una necessità o una scelta?
Una triste necessità.
Per pagare le bollette di gas, luce, acqua e telefono (in sintesi: per campare) faccio l'operaio turnista in una fabbrica.
Lavoro anche di notte di fianco a forni fusori del vetro, d'estate tocchiamo i 52 gradi e buona parte di quello che si legge a mia firma nelle varie riviste per le quali scrivo nasce nei cessi della fabbrica, magari scritto in piedi, appoggiato al muro.
Giuro.
E la cosa più triste é che qualche figlio di papà (e l'underground italiano E' PIENO di figli di papà), appena parlo male del suo disco o del disco che distribuisce, dice che sono prezzolato da questo o da quell'altro, o dalla tale etichetta.
Sconfortante".
Sono passati sei anni dalla stesura di queste righe, ne fossero passati sessanta avrei comunque sottoscritto ancora oggi ogni parola.
Scommetto che un qualcuno che conosco avrà sorriso sotto i baffi (che non ha), leggendo quella frase sul "settarismo e ansia di protagonismo di certi personaggi figli di papà della scena rock italiana".
mercoledì 11 giugno 2008
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4 commenti:
tutto vero. solo che rispetto ad allora si vendono ancora meno copie.
il più grande uomo della stampa rock italiana da quando la leggo. Punto.
cazzo Luca Frazzi, ora capisco come mai le cose che scriveva erano cosí vere. Leggendario poi come faceva a pezzi i demo su Rumore...
Saluti dal Belgio
Alessio
leggo le recensioni di Luca almeno da una ventina d'anni, ho una grande stima di lui, e lo considero un profondo conoscitore del mondo punk rock
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