Spesso si dice che un gruppo può essere giudicato dalle cover che decide di eseguire, ed a volte si ritiene vero anche il contrario.
Mai come nel caso di Spacemen 3 sono corrette ambedue le ipotesi di giudizio.
Nei dischi della band inglese sono presenti una serie di interpretazioni da enciclopedia del punk rock psichedelico, semmai questa definizione possa essere ritenuta accettabile da qualcuno.
In edizioni live o di studio sono stati ripresi brani di MC5, Red Krayola, ElevaThirteenth Floor Elevators, Mudhoney, Suicide, Bo Diddley, Sun Ra, Stooges giusto ad elencare i nomi più noti.
Dopo lo scioglimento della band sul suo repertorio hanno pensato di intervenire tipi come Flaming Lips, Mogwai, Low, Flowchart e Bardo Pond.
Insomma se conoscete, e pare impossibile il contrario, qualcuna delle bande elencate sopra potete tracciare da soli una mappa indicativa di quello che è stato il percorso culturale prima ancora che musicale del gruppo di Rugby.
Ed incastrare suoni ed atmosfere evocati da quegli stessi nomi non è poi così difficile come parrebbe a prima vista.
Krautpunkdelia potremmo dire se volessimo rischiare di sporcare la nostra camicia della festa con i pomodori lanciati da lettori giustamente a corto di indulgenza nei confronti delle invenzioni giornalistiche.
Eppure è proprio questo il percorso che Pete Kember e Jason Pierce decisero di intraprendere un paio di decenni orsono.
Una strada che prende il suo abbrivio dall'esplosione rock di Detroit a fine sessanta, guidata dalle chitarre di Wayne Kramer, Fred Sonic Smith e Ron Asheton, per dragare lungo il suo cammino le circolari reiterazioni ritmiche proposte innanzitutto dai fondamentali Velvet Underground poi sviluppate da quella scuola tedesca che trovava in gruppi quali Can, Neu e Kraftwerk i suoi massimi esponenti negli anni '70, sino a ricongiungersi con i suoni punk della fine di quello stesso decennio, deformando il tutto con una moviola innestata dalla fascinazione per la psichedelica ed alimentata da uno smodato utilizzo di sostanze stupefacenti.
A ben vedere il retroterra culturale che ha dato forma al progetto Spacemen 3 è quello stesso identico che ha donato linfa vitale ad un personaggio come Bobby Gillespie, il quale riuscendo a gestire meglio le proprie passioni ed i personali squilibri è riuscito ad attraversare indenne l'ultimo decennio dello scorso secolo riproponendosi ancora in grande forma ai giorni nostri.
Viene spontaneo dunque domandarsi quanta strada ancora avrebbero potuto percorrere Spacemen 3 se, come sembrava possibile ad un certo punto della loro carriera, avessero deciso di affidare le proprie sorti ad una figura chiave per l'evoluzione del pop britannico dell'ultimo ventennio quale quella di Alan McGee, al tempo boss di una ancor giovane Creation, amico di infanzia di Gillespie ed ammiratore degli stessi Spacemen 3.
Neanche tanto curioso il fatto che la storia, come sempre, finisca con il ripetersi.
Anno di grazia 2003, ancora Detroit, ancora psichedelia, ed il punk rimane attuale, ora come non mai.
Più curiosa la coincidenza capitata a chi scrive: dopo anni di passione per Spacemen 3 ed un periodo altrettanto lungo di oblio destinato a quello stesso gruppo, capita che la prima recensione scritta per la rivista che avete ora in mano sia dedicata all'esordio di Spiritualized, si parla del terzo numero del giornale nel maggio del lontano 1992, ed accade pure nel maggio di undici anni dopo di incontrare nuovamente il passato in territorio londinese, proprio nei giorni della stesura dell'articolo che state leggendo; dapprima sfiorando un concerto solitario di Sonic Boom, e pochi giorni appresso incrociando tra il pubblico di un altro concerto la figura di un invecchiato Pete Bain, che proprio negli Spacemen 3 imbracciò chitarra e basso.
sabato 3 maggio 2008
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